Lo scorso 16 febbraio è stata pubblicata una sentenza che coinvolge direttamente coloro che operano nel settore dell’estetica e del benessere della persona.
La vicenda trae origine dal ricorso del 31 dicembre 2020, con il quale Confestetica ha impugnato i DPCM del 3 novembre 2020; del 3 dicembre 2020; il relativo allegato n. 24 e, successivamente, con motivi aggiunti, del 14 gennaio 2021, prospettando l’illegittimità della disposizione che non annovera, tra i “servizi alla persona” erogabili anche in cosiddetta zona rossa, le attività dei centri estetici, pur includendovi, al contrario, quelle svolte dai parrucchieri.
Secondo parte ricorrente, tale norma pone in essere una discriminazione tra estetisti e parrucchieri che non appare suffragata da alcun riscontro tecnico-scientifico.
In sintesi, le argomentazioni espresse da Confestetica:
- Tra l’attività dei centri estetici e quella dei parrucchieri non sussiste una diversità tale da giustificare un maggiore rischio ascrivibile ai primi;
- Proprio in virtù di ciò, in occasione del primo lockdown (e in particolare con il DPCM 11 marzo 2020) le due attività erano state equiparate;
- Addirittura, secondo il documento tecnico presentato dall’Inail il 13 marzo 2020, i servizi prestati dalle estetiste erano stati ritenuti intrinsecamente più sicuri rispetto a quelli dei parrucchieri, sulla scorta del fatto che “…l’estetista lavora in ambienti generalmente singoli e separati (cabine) e le prestazioni tipiche comprendono già misure di prevenzione del rischio da agenti biologici…”;
- I parrucchieri sovente vendono i medesimi prodotti di bellezza acquistabili presso i centri estetici e sono autorizzati a prestare anche il servizio di manicure e pedicure, che rappresenta una delle principali prestazioni offerte dalle estetiste; di conseguenza la chiusura di queste ultime, ma non dei parrucchieri, determina uno sviamento di clientela in favore dei secondi;
- L’ingiustificata disparità di trattamento in questione penalizza il lavoro femminile, posto che la professione di estetista è svolta in via quasi esclusiva da donne.
Preso atto delle suddette argomentazioni, il TAR ha chiarito che nel caso in esame il Giudice è chiamato a verificare se, nell’esercizio della discrezionalità amministrativa in senso lato, la Pubblica Autorità abbia agito o meno con ragionevolezza e proporzionalità, nonché fondando le proprie determinazioni su adeguata istruttoria.
Ebbene, a parere del TAR, “la disposizione impugnata risulta perplessa e intrinsecamente contraddittoria, laddove, all’interno dello stesso provvedimento, i “servizi alla persona” vengono costantemente identificati come quelli erogati da “acconciatori, estetisti e tatuatori”, tranne che nell’allegato 24”, in forza del quale, senza alcun supporto motivazionale, i servizi estetici vengono esclusi da quelli consentiti.
I Giudici hanno ravvisato nella suddetta normativa un eccesso di potere da parte della Pubblica Autorità, caratterizzato da motivazione insufficiente, errore di fatto, ingiustizia grave e manifesta, nonché contraddittorietà interna ed esterna; sottolineando, peraltro, come la misura in esame non sia conforme ai principi di proporzionalità, coerenza e non discriminazione previsti dalla Commissione Europea per i provvedimenti limitativi fondati sul principio di precauzione.
Sulla scorta delle predetta ragioni, il TAR ha dunque accolto il ricorso (con esclusivo riferimento alle disposizioni ancora in vigore), annullando, per l’effetto, l’atto impugnato nei limiti dell’interesse della parte ricorrente.