Come tutti sanno, l’emergenza Coronavirus ha portato all’emanazione di provvedimenti autoritativi di restrizione delle libertà individuali, tra cui l’esercizio dell’attività di impresa.
La maggior parte delle attività commerciali, infatti, ha totalmente cessato di operare durante la cosiddetta Fase 1, per poi riprendere l’esercizio nella Fase 2, con l’obbligo di osservanza di protocolli di sicurezza particolarmente rigidi, che, di fatto, ne limitano l’effettiva capacità lavorativa.
Per tale ragione, nonostante i dati positivi sotto il profilo sanitario, moltissime attività continuano a riportare un calo del fatturato, in quanto – per effetto delle misure di sicurezza imposte dal governo o dagli enti locali – subiscono una compressione della capacità lavorativa, con conseguente diminuzione delle entrate economiche, rispetto al periodo antecedente al lockdown.
L’esempio tipico è rappresentato dall’attività di ristorazione: sebbene, a partire dal 18 maggio scorso, sia stata consentita l’apertura dei ristoranti, le regole di sicurezza previste per tale categoria fanno sì che i ristoratori siano costretti a ridurre sensibilmente il numero di coperti.
Se diminuisce la capacità di fatturato per cause di forza maggiore (come un provvedimento della pubblica autorità), è lecito chiedere una riduzione del canone di locazione?
Per analizzare la questione da un punto di vista tecnico, è opportuno esaminare, prima di tutto, le disposizioni normative introdotte dal Governo in materia locazioni commerciali ed emergenza sanitaria, per poi soffermarsi sull’orientamento che si sta via via delineando in giurisprudenza.
Con l’art. 65 del Decreto Curaitalia, il Governo aveva previsto un credito d’imposta, pari al 60% del canone di locazione di marzo, limitato alle sole categorie catastali C/1 (negozi e botteghe), con esclusione delle attività definite “essenziali” e delle categorie catastali diverse dalla C/1 (ad esempio, C/2 magazzini, C/3 laboratori di arti e mestieri, D/10 Uffici e studi privati), nonché di tutti i contratti diversi dalla locazione (ad esempio, l’affitto di azienda).
Sebbene il testo della norma sembrasse ammettere il credito d’imposta anche nel caso di mancato pagamento del canone, l’Agenzia delle Entrate, con Circolare n. 8 del 03/04/2020, ha precisato che il predetto credito sarebbe maturato solo a seguito dell’avvenuto pagamento del canone medesimo.
Di conseguenza, stando al Decreto Curaitalia e alla sua interpretazione da parte di A.E., sembrava che i commercianti impossibilitati a svolgere la propria attività non avessero diritto ad ottenere una sospensione del canone di locazione.
Successivamente all’entrata in vigore del D.L. Curaitalia, il 14 aprile 2020, è, però, sopraggiunta una pronuncia del Tribunale di Venezia che si è espressa in senso contrario a tale impostazione, accogliendo in via cautelare la domanda di sospensione del canone di locazione avanzata da un commerciante che, per causa di forza maggiore, aveva riportato un sostanziale azzeramento del fatturato.
La stessa posizione è stata fatta propria dal Tribunale di Bologna che, con decreto n. 4976 del 12 maggio 2020, in accoglimento di un ricorso d’urgenza, ha inibito, in via cautelare, al locatore – sulla base della sopravvenuta impossibilità all’adempimento per cause di forza maggiore in capo al conduttore – di portare all’incasso gli assegni bancari a garanzia del pagamento dei canoni di locazione.
Nel frattempo, il Governo ha predisposto il Decreto Rilancio, entrato in vigore lo scorso 19 maggio, con il quale è stata riproposta la norma sul credito di imposta pari al 60% del canone, ma con alcune sostanziali differenze rispetto al Curaitalia.
In particolare, a differenza dell’art. 65 del Curaitalia, l’art. 28 del D.L. Rilancio:
1) non limita il credito di imposta alla sola categoria catastale C1;
2) riferisce il credito di imposta ai mesi di marzo, aprile e maggio (aprile, maggio e giugno per le sole attività ricettive a carattere stagionale);
3) condiziona il suddetto credito di imposta ad una diminuzione del fatturato di almeno il 50% rispetto al medesimo mese del periodo di imposta precedente.
4) ammette un credito di imposta, in questo caso del 30%, anche per i canoni di locazione relativi a contratti di affitto di azienda in cui sia presente almeno un immobile ad uso non abitativo destinato all’attività di impresa.
L’interpretazione e la portata di tale norma sono state poi ulteriormente chiarite dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 14/E, che fornisce tutte le precisazioni utili all’accesso al credito di imposta.
A prescindere dalla suddetta disposizione, resta, però, il problema che molte attività si trovano obbligate a pagare canoni di locazione che erano stati concordati in un momento in cui la previsione di fatturato era notevolmente superiore alle possibilità attuali.
Sulla base di tale situazione di fatto, anche in seguito all’entrata in vigore del Decreto Rilancio, si registrano pronunce in linea con l’impostazione seguita dal Tribunale di Venezia e di Bologna.
Ad esempio, con la recentissima ordinanza del 1 giugno 2020, il Tribunale di Genova, Sezione III civile – anch’esso in accoglimento di un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – ha ordinato al locatore di non incassare le cambiali in suo possesso rilasciate dal conduttore a garanzia dei canoni. Anche in questo caso, il Tribunale ha preso in considerazione la grave crisi di liquidità sopravvenuta per cause non imputabili al locatario, il quale – titolare di una discoteca – si è trovato nell’assoluta impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa a partire da fine febbraio 2020.
Come spesso accade, quindi, i Giudici stanno subentrando a colmare, attraverso l’interpretazione e l’applicazione dei principi generali, le lacune delle disposizioni normative. Tuttavia, se la giurisprudenza sembra aver assunto una posizione netta con riferimento al periodo in cui i conduttori hanno visto integralmente sospesa la propria attività, essa non ha ancora avuto occasione di esprimersi in relazione alla Fase 2, ovvero ai casi in cui, nonostante la ripresa dell’attività, permane in capo al conduttore l’impossibilità di pagare il canone nella misura originariamente pattuita.
Cosa fare, quindi, in questi casi?
Occorre premettere che lo strumento giuridico a cui appellarsi è l’eccessiva onerosità sopravvenuta, di cui all’art. 1467 c.c., che stabilisce il diritto alla risoluzione in favore della parte per la quale il contratto è divenuto eccessivamente oneroso in forza di eventi straordinari e non prevedibili. La stessa norme offre, però, un rimedio che consente di evitare la risoluzione e salvare il rapporto contrattuale: l’equa rideterminazione delle condizioni del contratto.
Tale ultima previsione, oltre a rispondere al principio generale dell’equilibrio contrattuale che caratterizza l’intera disciplina prevista dal nostro ordinamento in materia di contratto, costituisce un rimedio di carattere pratico che permette di mantenere in vita il contratto ed evitare lunghe e dispendiose azioni giudiziarie.
A tal proposito, preme, infatti, mettere in luce che, in questo momento storico, negoziare un’equa rideterminazione del canone di locazione può rappresentare la miglior soluzione nell’interesse di entrambe le parti.
Naturalmente, trovare un punto di incontro non è semplice, ma rivolgersi ad un professionista può aiutare ad agevolare le trattative e pervenire ad un esito positivo in tempi brevi.
In caso contrario, come abbiamo visto, è sempre possibile far valere le proprie ragioni in sede giudiziale, facendo leva sull’impossibilità sopravvenuta, sulla causa di forza maggiore e sulla temporanea venuta meno della causa del contratto, per quanto riguarda il periodo di totale sospensione delle attività commerciali, e sull’eccessiva onerosità sopravvenuta con riferimento al periodo successivo.