È possibile che un soggetto si trovi ad essere proprietario (o comproprietario, ad esempio in caso di successione ereditaria) di uno o più immobili (case o terreni) che non generino alcun profitto, bensì solo costi ed oneri tributari.

Basti pensare al caso di un terreno incolto, inutilizzato e difficile da alienare o locare a terzi, che richieda ingenti spese di gestione, manutenzione o bonifica.

In casi simili, il proprietario o comproprietario non trae alcun beneficio dalla proprietà bene e, al contrario, è soggetto a oneri fiscali e obblighi di conservazione.

Esiste un modo, diverso dalla vendita, per “disfarsi” di un bene immobile non più desiderato?

L’unica strada possibile è quella della rinuncia o abdicazione della proprietà, una fattispecie non espressamente prevista dal codice civile, ma ritenuta legittima – seppur con alcuni limiti – alla luce dell’interpretazione dei principi generali dell’ordinamento.

Innanzitutto occorre scindere due distinte ipotesi: il caso in cui il bene abbia un unico proprietario ed il caso in cui vi siano più comproprietari.

Nella prima ipotesi, in caso di rinuncia alla proprietà, il bene immobile entrerà a far parte del patrimonio dello Stato, sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 827 c.c., che prevede l’automatica titolarità in capo allo Stato dei beni immobili privi di un proprietario.

L’atto di abdicazione dovrà essere stipulato avanti ad un notaio e trascritto nei pubblici registri immobiliari, previo versamento di un’imposta di registro pari all’8%.

Nella seconda ipotesi (bene in comproprietà), invece, la rinuncia da parte di un comproprietario produrrà un effetto diverso, ossia quello dell’automatico accrescimento delle quote degli altri contitolari dell’immobile (senza che questi possano opporvisi).

Anche in questo caso, l’atto dovrà essere stipulato avanti ad un notaio e sarà trascritto, nonché soggetto ad un’imposta di importo variabile.

È sempre possibile procedere con la rinuncia?

La risposta è negativa: in primo luogo, occorre sapere che, per espressa previsione dell’art. 1118 codice civile è vietata la rinuncia alla comproprietà sulle parti comuni dello stabile condominiale (e ciò per l’evidente ragione logica di evitare che un soggetto possa liberarsi delle spese condominiali incrementando quelle degli altri inquilini).

In linea generale, poi, secondo la giurisprudenza e l’Avvocatura Generale dello Stato, la rinuncia alla proprietà di un bene immobile è nulla qualora essa venga posta in essere al solo egoistico scopo di riversare sullo Stato (o su terzi) i costi di bonifica, manutenzione e/o demolizione dell’immobile stesso (ad esempio nel caso di terreni che presentino problemi di dissesto idrogeologico; terreni inquinati da bonificare, o edifici pericolanti da demolire).

In tal caso può essere riconosciuto il carattere elusivo/fraudolento dell’atto di rinuncia, che sarà, pertanto, suscettibile di dichiarazione di nullità, previo esperimento di un’azione giudiziale di accertamento, su iniziativa dei soggetti interessati (lo Stato o gli altri comproprietari).

L’intento elusivo e/o fraudolento non è, invece, ravvisabile nel caso di un terreno o di un edificio improduttivo che non presenti oneri particolarmente gravosi a carico del proprietario, oppure nell’ipotesi in cui le ragioni della rinuncia non siano esclusivamente legate all’elusione delle spese.